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Intervista rilasciata su ARTETVLAB

 

Si entra ‘dentro’, nella pittura densa e pastosa di Claudio Verganti. Per poi farsi risucchiare, affascinare, soggiogare da spatolate di colore che il più delle volte s’incendiano, sgomitano, collidono fra loro.
Squarci di giallo, arancio e ocra illuminano ‘cromoterapeuticamente’ ogni tela. E anche quando a imporsi è l’inchiostro blu della notte, ecco giungere la luce sottoforma di carezze e graffi d’oro.
Altrove, invece, il flusso cromatico si muove sottopelle come nebbia, foschia. Il Segno, in questo caso, cede il passo al Sogno.
Verganti, sempre e comunque, affida alla fisicità del colore il compito di esprimere se stesso nel modo più efficace, liberatorio e persuasivo possibile, esaltando con ogni singolo colpo di spatola una consistenza carica di elementi evocativi.
Nel suo gesto pittorico inequivocabilmente Informale, che cattura l’espressività del segno e il dinamismo dei piani sovrapposti, affiorano la polimatericità di Roberto Crippa (certe mezze sfere dense e magmatiche sembrano citare il “Rocks Sun” dello spazialista), le masse cromatiche di Alfredo Chighine, le consunzioni straordinariamente espressive di Alberto Burri (spesso, per dare più ‘spessore’ ai quadri, Verganti inserisce frammenti di sacchi di juta che si imbevono di colore).
E proprio la juta, di volta in volta, si trasforma in striscia di terra, isola, skyline, addirittura profilo e sembianza umana. La figurazione, all’improvviso, sembra avere la meglio sull’informale. In realtà, l’una non può prescindere dall’altro. L’una ‘cerca’ l’altro: puntando su quella stessa materia che il critico Carlo Giulio Argan, dialogando d’Informale, ebbe modo di definire “estremamente sensibile, come carne viva, capace di cantare e trattenere le sensazioni più labili, le impressioni più fugaci, le più segrete palpitazioni dell’essere”.
Stefano Bianchi, 2010


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